Libertà di Associazione Il 17 Ottobre 2020 l’agenzia ANSA pubblicava un articolo sulla libertà di associazione in particolare su legge n°18 del 12 ottobre 2018, della Regione Sicilia.

UE:COMMISSIONE PETIZIONI,CHIARIMENTI LEGGE ARS SU MASSONERIA.

Norma Regione Siciliana impone dichiarazione pubblica a iscritti

(ANSA) – CATANIA, 17 OTT – “Chiederemo alle autorità italiane le informazioni necessarie per valutare la compatibilità delle disposizioni della legge con il diritto dell’Ue, compresi quelli fondamentali riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. E’ la conclusione della Commissione per le petizioni dell’Ue sulla richiesta di abrogazione della legge n.
    18 della Regione Siciliana, del 12 ottobre 2018, sull”Obbligo dichiarativo dei deputati dell’Assemblea regionale siciliana, componenti della giunta regionale e degli amministratori locali in tema di affiliazione a logge massoniche o similari’. La Commissione annuncia che “informerà il Parlamento europeo sulle sue conclusioni”. L’intervento è stato sollecitato da un cittadino italiano, A. M., assistito dall’avvocato Salvatore Ragusa del foro di Catania, sostenendo che “l’obbligo di presentare una dichiarazione sull’eventuale appartenenza ad associazioni massoniche sia in palese contrasto con la Costituzione italiana e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Il firmatario ha fatto riferimento alla violazione di “varie disposizioni, in materia di dignità, rispetto della vita privata, libertà di pensiero, di coscienza, di espressione, di riunione e associazione e di non discriminazione”. La Commissione ha ritenuto ricevibile la richiesta e rilevato che “in particolare, come per qualsiasi trattamento di dati personali, la finalità deve essere legittima” e “può essere lecito solo se rispetta i diritti e le libertà riconosciuti dalla Carta, compresa la non discriminazione, nonché la libertà di pensiero, di coscienza e di religione e la libertà di riunione e di associazione”. Per questo la Commissione “ritiene opportuno chiedere informazioni alle autorità italiane” sulla legge per “valutarne la compatibilità con le pertinenti disposizioni del diritto dell’Ue e il possibile effetto restrittivo sull’esercizio dei diritti fondamentali pertinenti”. (ANSA).  

QUESTA POVERA GIUSTIZIA

Giuseppe Cardillo

“Chiamateli allibberali, o frammassoni…Contr’a li giacubbini de la setta…Un processaccio, e, appena condannati…Doppo avelli accussì ghijottinati, Je darebbe una bona impiccatura”.

I versi del Belli rappresentavano così la stagnante giustizia papalina ancora mezzo secolo dopo il codice dell’illuminato Pietro Leopoldo di Toscana, quello che nel 1786 aveva “sbandita dalla Legislazione” la pena di morte, la lesa maestà e con queste i reati di opinione, fondando il sistema criminale sopra la celerità e l’umanità del giudizio per “la speranza di veder tornare alla Società un cittadino utile e corretto”.

Cittadino, Società, Speranza. Termini allora inauditi nelle leggi penali, ripresi due anni dopo in Francia dalla  Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino che li ha resi universali. Che precedettero il “Codice di procedura civile pei Tribunali del Granducato di Toscana” del 1832, che all’art. 94 giunse a stabilire che “Tutti i giudizj ordinari avanti qualunque Tribunale, e Magistrato di prima, seconda, e terza istanza avranno il termine perentorio di sei mesi correnti”.

Provate a leggere quei codici, o meglio facciamoli leggere in Parlamento, nel superfetare della nostra bulimia legislativa, del contentare le isterie del momento, della matassa normativa che ha reso tutto vietato e tutto permesso, con la conseguenza, ormai di rango costituzionale, che c’è una legge per ogni bisogna e questa si applica ai nemici e si interpreta per gli amici.

Diceva un contabile della politica che le leggi tuttora vigenti nel Bel Paese si contano in oltre un milione. Altrettanti i relativi procedimenti che realizzano la tirannia del diritto processuale su quello sostanziale, con l’inversione del brocardo con cui il giudice chiedeva all’avvocato “da mihi facto, dabo tibi ius”. E fu così che venne a circolare la speranza di una legge grottesca, recante l’articolo uno e unico: “Tutte le leggi, dal 1968, sono abolite”.

La crisi del sistema penalistico italiano è in particolare sotto gli occhi, anche di quelli del profano, intimidito dal groviglio normativo, alluvionale effetto dell’emotività della politica.

Numerosi precetti penali risultano invero emanati per contingenze, in ultimo per la corrente pandemia sanitaria ed economica, per esigenze ora restrittive e ora permissive della finanza, nella tutela dell’ambiente, in materia di stupefacenti, sulla libertà sessuale e così via. Altre norme sono per altro verso dirette ad assistere e supportare la pubblica amministrazione, oggi carente e domani crollata sotto la sua mole, senza che questo schizofrenico e ondivago legiferare tuteli nella coscienza di ciascuno precisi valori della persona e della collettività.

La questione delle pluralità delle norme penali e del loro indirizzo è dunque quella della stessa conoscibilità della legge e quindi della certezza del diritto per il cittadino.

Giovanni Falcone venne a Firenze nel 1988. Al Circolo fondato da Salvemini, tenuto poi dai Rosselli e da Calamandrei, ci diffidò dal guardare allo stesso nuovo Codice del rito penale italiano in materia emozionale, dal caricarlo di eccessive aspettative, quando stava assegnando all’accusa la fase delle indagini e al giudice quella della decisione in merito, senza separare lo stato e la carriera dell’accusatore da quella del giudicante.  Profeticamente, lo ritenne “in grado di funzionare se funzionerà tutto il meccanismo, a cominciare dalla mentalità di noi magistrati. In particolare intendo riferirmi alla netta differenziazione tra Pubblico Ministero e Giudice: il Pubblico Ministero deve prendere coscienza di essere parte e deve improntare la sua attività a questo nuovo ruolo assai diverso…”.

La cautela di Giovanni Falcone era ancora più giustificata verso il nuovo procedimento penale, che del resto lasciava  intatto quello dei reati e delle pene, del Codice Penale entrato in vigore il primo Luglio del 1931, con l’allora concomitante Codice di Procedura penale. Ambedue costituirono una singolarità nel panorama penalistico europeo.

L’Italia post unitaria si era infatti dotata dopo profondo dibattito del sistema penale varato da Crispi e Zanardelli nel 1889. L’ordinamento aveva raccolto le illuminate posizioni della codicistica preunitaria, e contemperandole nell’ottica laicistica del tempo aveva predisposto uno strumento che, come in altre parti d’Europa, avrebbe certo raggiunto il secolo di vita.

L’impianto del codice napoleonico è stato infatti aggiornato dalla Francia solo nel 1994. L’Austria ha adottato un nuovo Codice Penale nel 1974, sostituendo quello del 1852, mentre in Germania il codice guglielmino del 1871 scampò persino al nazismo rimanendo illeso sino al 1975.

Al governo Mussolini premette invece la stesura  di nuovi codici ispirati alla centralità dello Stato. Dettero al guardasigilli Rocco tempi ristretti, e pochi mesi per una   consultazione di pura facciata delle cattedre universitarie. Quella che aveva richiesto anni al ministro Zanardelli.

La fretta del ministro fascista forzò anche lo stesso sistema statutario, quando il Regio Decreto di approvazione del codice Rocco travolse la legge  2260 del 1925, che aveva delegato il Governo a “modificare” ovvero “emendare” quelle norme del codice Zanardelli  “che danno luogo a questioni” e quelle “formalmente imperfette”.

Al contrario il R.D. 1398/1930  promulgò un corpus normativo stravolgente, dove la tutela dello Stato e dell’ordine sociale venne sovrapposta a quella del cittadino e all’emenda propugnata dal Granduca di Toscana in anticipo alla Rivoluzione Francese. Sarà stata una coincidenza venuta dalla fretta, o fu solo un caso che la legge promulgativa dei codici Rocco non ebbe la firma di Vittorio Emanuele, in quell’anno ancora non immemore dei traguardi di civiltà raggiunti dall’Italia dei Savoia al tempo di Umberto I.

Il dopoguerra e il ritorno alla sovranità parlamentare riproposero il tema della centralità del cittadino, soggetto centrale e titolare della protezione della legge criminale, e della struttura e finalità delle pene.

Doveva quindi essere realizzato il principio costituzionale che la pena è riscatto ancor più che l’emenda del reato ovvero solo una remora. Ma il lungo tempo trascorso e la complessità e il numero dei tentativi parlamentari e di governo verso un nuovo Codice Penale potrebbero occupare da soli un capitolo della storia del diritto italiano. Al tentativo dell’Agosto 1944 del ministro Tupini “per la formazione di un nuovo codice penale…aderente alle tradizioni giuridiche del popolo italiano” e sostanzialmente mirato al ripristino dei principi del codice Zanardelli sono seguite iniziative firmate da giuristi di fama nella scienza penale in Italia e nei paesi  ad ordinamento similare, come quelli dell’America latina. Si giunse al progetto di un nuovo codice penale del Lattanzi, a quelli di Aldo Moro del 1956, di Guido Gonella del 1960, di Oronzo Reale del 1968, e a quello di Giovanni Leone nella VI legislatura, che fece introdurre quantomeno la clemenza del cumulo attenuato delle pene e la comparazione delle circostanze aggravanti e attenuanti  introdotte dalla legge 220/1974, negli anni dell’emergenza economica e del limitato intervento sul sistema penitenziario, con le sanzioni penali sulle violazioni amministrative. E solo nel 1987 il ministro Giuliano Vassalli provò a dare una nuova spallata all’ormai consueto criterio delle leggine portatrici di sanzioni penali di supporto all’elefante della burocrazia italiana.

L’intero apparato penalistico andava riscritto, si disse nuovamente in quegli anni, e giunse dunque la commissione presieduta da Antonio Pagliaro, composta con Franco Bricola, Ferrando Mantovani, Tullio Padovani e Antonio Fiorella. Il seguito dell’iniziativa è passato al catalogo dei fallimenti: rasseganti i propri risultati al Ministro per il seguito delle consultazioni delle Università, la Commissione cadde con la Prima Repubblica, e con essa l’ennesimo tentativo di superamento del Codice Rocco.

Né migliore fortuna toccò nel 1994 alla Commissione Giustizia del Senato, quando costituì un nuovo Comitato per la riforma del Codice Penale. Questo rassegnò il lavoro con l’articolato  del Disegno di Legge presentato dal Governo del fiorentino Lamberto Dini, naufragato con la fine anticipata della XII Legislatura.

Nel contempo e nel seguito ultraventennale il Governo e il Parlamento hanno imperversato con decreti, leggi che sovrappongono quelle dell’Unione europea e le leggine che contentano le estemporanee emotività, le mode e in primis della pubblica amministrazione che maschera le sue inefficienze.

La sfiducia e il fatalismo della nostra democrazia e della nostra cultura giuridica nelle vicende riformatrici del codice Rocco hanno codificato, al contrario, il sistema delle leggi parziali e modificatrici di quelle già modificate, istitutive di nuove e sempre più complesse figure di reato, talché il nostro sistema penale è oggi quel bosco ignoto al cittadino tenuto per primo ad conoscerlo.

Il contratto sociale viene dunque  strappato nell’impenetrabile foresta della Gazzetta Ufficiale. Un eden per gli addetti ai lavori, a molti dei quali sfugge il principio della pari condizione dei cittadini nell’ordinamento sociale.

Né deve sfuggire il rapporto tra la complessità delle norme e quelle nicchie dove il potere della burocrazia si rafforza a dispetto delle dichiarazioni di principio, e dove quindi muore la fiducia del cittadino verso lo Stato.

Nel particolare sistema delle leggi penali, chi può negare la necessità di un Codice che finalmente disboschi il sistema penalistico di questo Paese a quasi un secolo da quello fascista? O l’esigenza di una giustizia diversa da quella dea bendata, sperduta nel groviglio sovrapposto al vetusto codice di un ordinamento totalitario nelle emergenze di novant’anni?

Decenni di iniziative della dottrina, del governo e parlamentari verso un corpo di leggi penali, di un solo codice fondato sulla centralità della tutela della persona, dei suoi pubblici e privati diritti, anziché su quello dello Stato, rendono infatti inutile la domanda se si debba continuare con le depenalizzazioni a casaccio e gli inasprimenti del giorno dopo, nell’ormai forsennato legiferare che dopo aver disorientato il cittadino lo ha portato al fatalismo dell’ignoranza verso un Codice penale ormai gonfio di quasi mille articoli e accerchiato dalle centinaia di leggi che hanno seppellito la nostra giustizia.

E qui torna il Belli, che nel 1836, all’abate confessore dei condannati a morte che portava il profetico nome Bonafede, rispose che le leggi soffocanti danno almeno la speranza  nella semplicità delle regole ultraterrene: quando il poveraccio “more per le mano der governo, è quasi certo  com’adesso è inverno, che trova er paradiso spalancato”.