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MANIFESTO Conflitto Russia /Ucraina

La guerra è un orrore.

Tutti vogliono la Pace nel mondo.

La pace da tutti enunciata non può trovare soluzione dopo che un conflitto è iniziato.

La pace deve essere perseguita in ogni istante della vita di un essere umano come un 

fuoco che non può spegnersi ma deve essere sempre alimentato.

La pace deve essere, la conclusione di un percorso. Deve essere la rappresentazione 

della volontà dell’umanità a cui tendere con ogni sforzo.

La pace senza libertà non è pace.

i diritti civili devono essere rispettati.

L’umanità ha impiegato millenni ad erigere il bastione del Diritto contro la violenza 

primigenia ed illimitata della guerra.

La libertà e la democrazia non sono per sempre.

I Diritti Umani si coltivano non si annientano.

Chi non rispetta i Diritti Umani non rispetta se stesso.

Vogliamo che venga denunciata la persistenza delle violazioni umanitarie e la necessità 

di un Corpo Penale sulle maggiori violazioni della Dichiarazione Universale dei diritti 

dell’uomo del 1948.

Ci appelliamo al Diritto Internazionale e alle Convenzioni Internazionali vigenti. 

Chiediamo alla Lidu Nazionale facente parte della FIDH operante nell’ordinamento 

dell’ONU, affinché si attivi presso tutti gli organi delle Nazioni Unite, facendo sentire la 

voce dell’umanità straziata dalla guerra.

Dobbiamo incrementare i valori del dialogo.

Lidu Onlus Comitato di Firenze

Pace

La Lidu ieri 27 Febbraio era in Piazza Signoria, strapiena di gente, per dire no alla guerra, oggi più che mai i diritti umani sono da difendere. La Costituzione Italiana, all’articolo 11, “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Le cose sono molto complicate, c’è molta incertezza e paura, questo momento è assurdo dobbiamo essere uniti e cauti.

DIRITTI E SALUTE

Dania S.Girard

NON VACCINARE I PAESI POVERI è UNA GRANDE INGIUSTIZIA non solo, ma oltre alla DISEGUAGLIANZA è anche un pericolo per tutti i paesi del mondo.

Gli scienziati da mesi ricordano che vaccinare tutti in tutti i paesi è l’unico modo per abbassare il rischio di sviluppo di varianti che resistano ai vaccini e che in un mondo globalizzato non si può pensare di arginare il virus in una sola parte del mondo.

Le VARIANTI MONITORATE dall’Oms :

“Mu” è la quinta mutazione elencata dall’Organizzazione mondiale della Sanità, ci sono anche quattro varianti più serie, “di preoccupazione”. Tutte e nove le varianti designate sono nominate con una lettera diversa dell’alfabeto greco. Le cinque varianti di interesse al momento sono:

Eta, rilevata per la prima volta in più Paesi nel dicembre 2020

Iota, rilevata per la prima volta negli Stati Uniti nel novembre 2020

Kappa, rilevata per la prima volta in India nell’ottobre 2020

Lambda, rilevata per la prima volta in Perù nel dicembre 2020

Mu, rilevata per la prima volta in Colombia nel gennaio 2021

Le quattro varianti di preoccupazione, che si ritiene abbiano il potenziale per aggravare la pandemia, sono:

Alpha, rilevata per la prima volta nel Regno Unito a settembre 2020

Beta, rilevata per la prima volta in Sudafrica nel maggio 2020

Gamma, rilevata per la prima volta in Brasile nel novembre 2020

Delta, rilevata per la prima volta in India nell’ottobre 2020

Poiché più il virus si diffonde, più opportunità ha di mutare, ci si aspetta che il numero di varianti di Sars-CoV-2 possa cambiare nel tempo. Per ora il modo migliore per limitare le mutazioni del virus è cercare di limitarne la diffusione. Il vaccino è l’unica arma efficace al momento che abbiamo a disposizione per evitare un peggioramento della epidemia. Più persone vengono vaccinate, meno sono gli ospiti suscettibili in cui il virus può vivere e subire una mutazione.

Secondo un’analisi del New Statesman, oltre l’ottanta per cento delle dosi di vaccini contro il Covid-19 sono state somministrate in Paesi a reddito medio-alto e alto, mentre solo lo 0,3 per cento è stato finora destinato ai quelli poveri. E gli africani completamente vaccinati sono in proporzione meno rispetto agli abitanti di qualsiasi altro continente: solo l’1,6%, rispetto al 49,2% negli Stati Uniti e al 48,9% nell’Ue.

Lo dice anche Draghi: “In molte economie avanzate la pandemia è sempre più sotto controllo, ma purtroppo non è così nei Paesi più poveri del mondo. Ci sono state delle enormi disuguaglianze in termini di accesso ai vaccini. La ripresa globale è caratterizzata dalle stesse disparità. Dobbiamo fare di più – molto di più – per aiutare i Paesi più bisognosi”

L’emergenza di nuove varianti rafforza l’importanza, per chiunque, compresi coloro che hanno avuto l’infezione o che sono stati vaccinati, di aderire rigorosamente alle misure di controllo sanitarie e socio-comportamentali (l’uso delle mascherine, il distanziamento fisico e l’igiene delle mani).

Fonti

Ministero della salute

SKY TG24

Europa today

Fanpage

foto da Ansa , Popolazioni Africane

Riforma Cartabia

La Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo Comitato di Firenze, presieduto dalla Presidente Arch. Dania Scarfalloto Girard, martedi 20 Luglio 2021 si è riunita nella Sala Spadolini , presso “La Loggia” Piazzale Michelangelo 1 Firenze, dopo la seduta della Giunta, è stato girato un breve video avente come tema la Riforma della Giustizia, alcuni membri si sono espressi sulla necessità di questa riforma tanto attesa e di quanto sia un’esigenza prioritaria non rinviabile.

Qui sotto potete trovare collegamento al video integrale.

https://www.facebook.com/lidufirenze/videos/2622889594687183

PER UNA NUOVA DEFINIZIONE DI TOLLERANZA

“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” 10 dicembre 1948, Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, articolo primo.

Non siamo tutti uguali e neppure abbiamo tutti le stesse idee: è un dato di fatto. Quello che invece non è scontato è che la diversità generi a priori una gerarchia di dignità, fattuale od intellettuale, tra chi si distingue per genere, razza, religione, idee o qualsiasi altra cosa.

Mi ricordo di aver letto, in un libro di Bertrand Russell, un concetto che suona più o meno come segue. “Vi sono tre grandi religioni monoteistiche, ciascuna delle quali racconta una propria immagine della Divinità e propugna la morale che ne discende in modo diverso. Tutte sostengono di essere certe della propria Verità perché le è stata rivelata direttamente da Dio stesso: come minimo (e in quel come minimo vi è tutto lo humor inglese del grande filosofo) due su tre non sono attendibili”. Proseguendo il pensiero tracciato da Bertrand Russell, basterebbe riflettere sulla casualità della nostra formazione intellettuale che dipende dal periodo storico, l’area geografica, la famiglia in cui per destino siamo nati e che perfino il corso di studi o la professione possono influenzare il nostro modo di pensare per giungere alla conclusione che altri punti di vista, diversi dal nostro, devono essere da noi valutati ugualmente degni di considerazione.

Ciascuno di noi riceve un’educazione imperfetta, parziale, che dipende dalla sua condizione e lo spinge a guardare il resto del mondo come dall’interno di una regola, pronto soltanto a giudicare quelli che, dal suo punto divista, appaiono gli errori degli altri. Si nasce senza distinzioni, ma passiamo attraverso l’educazione del proprio stato, religione, famiglia e ciò che da essi riceviamo è solo una piccola parte di qualcosa di più grande, generale, che attiene all’uomo in quanto tale, appartenente al genere umano: l’Uomo con la “U” maiuscola, appunto. Non possiamo certo rinnegare l’educazione ricevuta, ma dobbiamo comprendere come essa sia imperfetta, parziale, unilaterale e che ci spetta il compito di annegarla, quale limitata componente, in una più ampia, desiderabile, universale, per tornare ad essere Uomini, secondo la nostra natura. Per questo la diversità ci è indispensabile: solo il confronto, purché pacato e sereno, di situazioni ed idee diverse potrà permettere il progresso delle idee stesse e ci consentirà di proseguire nella comprensione di questa nostra auspicata universalità culturale.

La Storia ci dimostra quanto questo sia sempre stato difficile: schiavitù, guerre di religione, prevaricazioni di ogni tipo ci accompagnano in ogni epoca. La nostra speranza risiede nella constatazione che l’umanità, da sempre, si è dimostrata capace tanto di produrre tutto il male possibile quanto poi di porvi rimedio: tanto più l’appropriazione e la manipolazione della verità assoluta genera l’intolleranza, tanto più dobbiamo confidare che la natura umana e l’attaccamento degli uomini alla libertà inducano a neutralizzarla. Cos’è quindi questa tolleranza che gli uomini di buona volontà desiderano e di cui, in generale, sentono ancora la mancanza? Quanto dovremo aspettare? Nella mia percezione, è successo che, all’alba del terzo millennio, venga segnato un

drammatico passo indietro laddove potevamo, e dal secolo dei lumi in poi ce n’erano le premesse, sperare invece in un significativo progresso. Certamente nella società d’oggi la “tolleranza” costituisce un concetto ambiguo, quantomeno dubbio.

Recita uno dei vocabolari della lingua italiana più diffusi: “tolleranza”, sinonimo di sopportazione, capacità di tollerare, con pazienza e senza lamentarsene, ciò che è o potrebbe rivelarsi spiacevole, disposizione d’animo per la quale si accettano e si rispettano idee, opinioni, religioni diverse dalle proprie. Questa definizione un po’ mi rincuora: non molti anni fa, nello stesso vocabolario, idee ed opinioni non sarebbero state citate e avremmo trovato che il termine “tolleranza”, in realtà, nella nostra lingua, è nato con il mero significato di concessione di libertà di culto anche a religioni diverse da quella ufficiale. Essa trova il suo uso più noto nei così detti editti di tolleranza, quello di Costantino e Licinio, nel 313, che pose fine alle persecuzioni dei Cristiani, quello di Caterina de’ Medici che nel 1562, nella cattolicissima Francia, consentì agli Ugonotti il libero esercizio del loro culto, cercando di evitare una guerra civile, o infine quello del 1782 promulgato da Giuseppe II d’Austria con cui si estendeva la libertà religiosa alle popolazioni viventi nei territori asburgici ma professanti confessioni non cattoliche, cioè luterani, calvinisti, ortodossi, ebrei e massoni. Concessioni politiche che comunque superano quelle della Chiesa che, dal suo punto di vista religioso, ancora oggi concepisce la tolleranza solo come limitata indulgenza nei riguardi dell’opinione dei propri fedeli discordanti su questioni secondarie, non considerate dogmi o dottrine essenziali.

Non è una sorpresa, in questo campo, che la società civile, laica, si sia mossa più rapidamente della Chiesa, o meglio, di quelle religioni che, poiché si definiscono “rivelate”, non possono ancora deflettere dalle posizioni di chi si ritiene depositario di una verità assoluta, non discutibile, neppure parzialmente. D’altra parte, nella storia dell’uomo, il concetto di tolleranza non precede sicuramente l’età dell’assolutismo religioso, e sembra avere legami organici, in senso negativo, con esso e, per esso, con il monoteismo: i Romani infatti, finché in epoca pagana, si sono rivelati insofferenti solo quando venivano toccati gli interessi economici della Res Publica, dimostrando invece larghezza di vedute, se non curiosità e desiderio di condivisione, in materia di religione, filosofia, cultura in genere di tutti i tipi. Poi, con il cristianesimo paolino, nell’occidente si diffuse il conformismo culturale, che culminò nel Medio Evo con la feroce repressione da parte della Santa Inquisizione di ogni esercizio di discernimento.

Come detto, il concetto si è poi evoluto, anche se soltanto dal punto di vista civile: in molti stati vi è oggi il rispetto della libertà altrui, non soltanto in materia religiosa, ma anche delle opinioni sia d’ordine filosofico che politico. Dopo un lungo appannamento della ragione, finalmente Voltaire così poteva definire la tolleranza nel suo dizionario filosofico: “la tolleranza è appannaggio dell’Umanità; siamo tutti intrisi di debolezza e d’errore; perdonarci reciprocamente le nostre sciocchezze è la prima legge di natura” potendo dedicarle un successivo celeberrimo trattato. Pochi anni più tardi Mirabeau dichiarava: “io non sono venuto a predicare la tolleranza; ai miei occhi la libertà di culto illimitata è un diritto talmente sacro che il termine tolleranza, che vorrebbe esprimerla, mi sembrerebbe in qualche modo anch’esso tirannico, perché l’autorità che tollera potrebbe anche non farlo”.

Ecco perché il termine “tolleranza” suscita in me una spontanea, radicata diffidenza: la semantica, ai miei occhi, lo limita e, pur non avendo un’alternativa migliore, le impedisce di raggiungere quell’altezza di valori umani che ai nostri giorni, come ho detto, sarebbero ormai evocabili. Non posso dimenticare che il termine, in origine, sancisce un rapporto di forza ed implica una distinzione netta fra coloro che tollerano e coloro che beneficiano della tolleranza, come se fosse una concessione e non un diritto. Con Mirabeau, umilmente di fronte a tanto nome e ben oltre due secoli più tardi, vorrei anch’io dire: un riconoscimento dell’altro che sia pieno e tragga la sua forza

dalla legge naturale non dovrebbe avere la necessità di essere espresso, tantomeno con quel vocabolo. Forse ci sarebbe bisogno di una parola nuova, esprimente un concetto talmente intriso di libertà da non esservi né concessione né condiscendenza, ma il semplice riconoscimento di sé e degli altri senza cancellare quelle differenze che, abbiamo detto, costituiscono una continua fonte d’arricchimento.

Rifacendomi agli inizi di questo breve scritto, mi sento di sottolineare ancora che la tolleranza vera, per noi, oggi, indipendentemente da ogni etimologia od accezione precedente, religiosa o profana, consiste nella consapevolezza che la diversità nel pensiero, nei sentimenti, nei propositi sia una reciproca ricchezza, sia pertanto meritevole gioia ed accoglienza e non di sopportazione. Tolleranza è pertanto il pieno riconoscimento della pari dignità a chiunque esprima una cultura, un culto o un’idea diversa, perché quella diversità sarà comunque per tutti una occasione di confronto e consente di aggiungere un piccolo mattone alla costruzione di una società più giusta, più consapevole, con minore sofferenza per tutti.

E se questa idea della tolleranza, purtroppo, ancora oggi può essere considerata solo una visione profetica di pochi, in attesa di un mondo che verrà e non certo un diffuso stato di fatto, mi sono a lungo chiesto dove trovare una parola che la esprima compiutamente! Ed oggi ricevo un aiuto inaspettato, sfogliando una rivista di cultura varia, rimasta a lungo, non letta, su uno scaffale della mia libreria. Scopro infatti il termine arabo, tasamuh: esso implica concetti come permesso, autorizzazione, perdono, tolleranza ed indulgenza. Ma c’è di più, molto di più. E’ la forma nominale di un verbo della sesta coniugazione: mi dicono che gli arabi, oltre ai verbi transitivi ed intransitivi e, per i primi, l’attivo e il passivo, hanno anche quella sesta coniugazione per esprimere la reciprocità. Tasamuh è perciò un riconoscimento reciproco delle proprie differenze, accordato contemporaneamente da una parte e dall’altra, senza gerarchie.

Mi ricorda che questa lingua è nata, e quella civiltà è fiorita, in un’epoca in cui noi europei eravamo sicuramente i barbari. Quella civiltà ha potuto insediarsi, fiorire e creare città come Medina, Damasco, Baghdad, Kairouan, Cordova, Siviglia, Samarcanda, Isfahan, Shiraz, Istanbul, il Cairo e molte altre metropoli a est e a ovest, traendo la sua grandezza non dal potenziale di un solo popolo, ma anche da ciò che di diverso quel popolo incontrava strada facendo, che fosse greco, cristiano, persiano, indù, cinese, africano o berbero e così via. Il pensiero arabo fu impregnato da ciò che di diverso incontrò, attraversando deserti e mari o nei circoli che a Baghdad radunavano sapienti musulmani, cristiani, siriaci ed ebrei per tradurre i tesori della civiltà dell’uno e degli altri, al fine di unirne i semi. Il profeta Maometto raccomandava ai musulmani di andare in Cina per arricchirsi del suo sapere. Il dialogo è poi proseguito a est e a ovest: in Andalusia, patria di Avorroè, musulmano, e di Maimonide, ebreo, e di molti altri sapienti cristiani, che avevano saputo introdurre i lumi della scienza in terra di Islam. Riaprendo le porte dell’Europa al pensiero di Aristotele, la civiltà araba islamica, rappresentò l’incontro con l’altro che preparò l’Europa del Medioevo a ricevere il nutrimento che avrebbe alimentato il Rinascimento. Ecco perché, a dispetto dei fondamentalismi di alcuni arabi di oggi, in tasamuh vi è, nel confronto, il riconoscimento dell’altro senza orgoglio né complessi; non tollerato, bensì considerato ad un livello d’uguaglianza e in piena libertà.

La lingua in cui vi scrivo avrebbe bisogno di un termine così e forse ci è di lezione (sicuramente lo è per me), o forse è un segno del destino e fonte d’ispirazione, che l’esempio ci venga da un altro popolo, che pure si affaccia sul Mediterraneo, affinché non pecchiamo di presunzione pensandoci noi soli capaci di tolleranza, affinché sappiamo riconoscere la ricchezza di culture diverse e non cadiamo nell’errore di essere orgogliosamente disposti a concedere una qualunque tolleranza, ma essere invece sempre umilmente desiderosi di riceverla.

Un termine così, ancora da inventare nella lingua in cui vi scrivo, mi educherebbe al solo pronunciarlo.

Alessandro Pini (*)

Ispirato da uno scritto di Mohamed Hassine Fantar, tunisino, titolare della cattedra Ben Ali per il dialogo delle

I DISABILI, CITTADINI DIMENTICATI

a cura di Dania Scarfalloto Girard

Le persone con disabilità rappresentano una delle categorie fragili più a rischio nello contesto epidemiologico attuale, non solo perché a causa della loro condizione clinica e fisica hanno maggiori probabilità di contrarre il virus e di subirne conseguenze e complicazioni gravi, ma anche perché necessitano di una costante assistenza.

Vi sono persone  con gravi patologie e con disabilità complesse per le quali si rende necessario il ricovero in strutture sanitarie assistite, non possono e non devono più continuare a rimanere invisibili. Si può capire la complessità dei problemi legati alla campagna vaccinale e alla scarsità delle dosi, ma non inserire le residenze socio-sanitarie per disabili tra le priorità è una grave scelta ed è inaccettabile.

Ricordo che le persone disabili, sono categorie a rischio, più esposte al rischio perché sono anche più fragili, non autosufficienti, che hanno bisogno di un supporto, come gli autistici, malati con malattie rare, i non vedenti, i malati di Alzheimer e molte altre, che hanno problematiche comportamentali e che hanno difficoltà, intellettiva e fisica a rispettare le regole e usare dispositivi.

La pandemia ha messo in evidenza, una criticità nel sistema di cura soprattutto ospedaliero, la mancanza di un protocollo che preveda, per le persone con disabilità, incapaci e a disagio, nel capire il contesto di cura e l’ambiente ospedaliero; un percorso dedicato, specifico, che fornisca sostegni adeguati a decodificare la sofferenza di queste persone, con la presenza di un “caregiver”che possa mediare la relazione con l’ambiente e in questo modo anche ad alleggerire il sistema di cura e rendere più efficaci i percorsi terapeutici e riabilitativi per queste persone.

Tutti vorrebbero essere vaccinati, per quanto riguarda la priorità delle vaccinazioni, c’è molta ambiguità, molti si sono resi conto che solo alcune categorie potranno essere vaccinati o hanno la priorità, ma come mai la categoria dei disabili deve attendere?

Le varie associazioni di queste categorie cercano di far capire l’importanza della vaccinazione per queste persone, sottoponendo le problematiche e sollecitando anche all’ex ministro Speranza a prendere provvedimenti.

Come mai nessuno ha mai pensato di dire che i disabili devono essere considerate come prioritarie?Se ne parla solo da poco, e questo è grave!

Stiamo parlando della sopravvivenza di molte persone, è stato deciso di vaccinare varie categorie, sono state decise non si sa per quale principio, sembra uno sgomitare tra le categorie, tanto per fare un esempio:ma i professori universitari, gli avvocati, i magistrati, i notai, i giornalisti per esempio sono categorie a rischio? Categorie si categorie no, questa è la realtà!

I disabili sono forse considerate categorie parassitarie?

Vaccinarsi per le persone disabili significa vivere in una maniera diversa, da come stanno vivendo adesso, sicuramente più sicura, c’è molta superficialità su questo argomento, e soprattutto nel capire i gravi problemi che esistono nell’affrontare queste malattie collegate alla disabilità, spesso queste malattie che affliggono i disabili sono veramente severe.

La situazione non è chiara, non è più tollerabile, che il governo possa ancora lasciare il mondo della disabilità in una situazione a rischio. Cittadini che non vedono una risposta, in Italia ci sono 3.800.000 persone con disabilità, più le loro famiglie e gli operatori che li assistono.

Fonti

Radio 24,G.Nicoletti

La Nazione

Ass. Anffas

Foto da MediaFriuli

Disabili.com

Crisi demografica e diritti fondamentali

Secondo le previsioni, la diffusione del Coronavirus, oltre ad aver colpito un cospicuo numero di persone anziane, avrà anche la conseguenza di ridurre ulteriormente, o mantenere bassa, la natalità

di Antonio Virgili – Presidente Commissione Cultura della LIDU

Ѐ definita “crisi demografica” una situazione nella quale le caratteristiche della popolazione (migrazioni, natalità, fertilità, nuzialità, malattie, ecc.) sono tali da determinare alterazioni ampie delle caratteristiche di partenza di tale popolazione, alterazioni che portino ad un impoverimento demografico, sia nel rapporto relativo tra le varie fasce d’età che nel numero totale di abitanti. Secondo le previsioni, la diffusione del Coronavirus, oltre ad aver colpito un cospicuo numero di persone anziane, avrà anche la conseguenza di ridurre ulteriormente, o mantenere bassa, la natalità. Sebbene solo da pochi anni si cominci a discutere di questi aspetti, l’Italia si trova già da vari decenni sulla china di un’ampia crisi demografica, ben prima dell’epidemia di Coronavirus del 2020.

Natalità e fertilità erano, infatti, in calo costante da diversi anni, la nuzialità pure (con il contemporaneo aumento dell’età media degli sposi); l’invecchiamento ha raggiunto livelli alti e con il contenimento delle spese assistenziali e sanitarie la mortalità sta riprendendo ad aumentare, e cresce pure il numero di persone (non solo anziani) che non può permettersi di pagare farmaci e cure adeguate; aumenta, il flusso di emigrazione dei giovani, specialmente di quelli istruiti. Come in alcuni altri Paesi europei (1), il numero totale di abitanti sarebbe già in costante diminuzione se non ci fosse il bilanciamento dei flussi migratori. Inoltre i divari territoriali sono ampi, con zone sempre più spopolate ed impoverite della parte più istruita e dinamica della popolazione ed aree dove i livelli di istruzione, di servizi e di infrastrutture sono al di sotto della media nazionale. Come i dati di altre ricerche mostrano, nel Sud la speranza media di vita è più bassa ed ha cominciato a differenziarsi più significativamente da quella media. Secondo i dati dell’Osservatorio nazionale sulla salute dell’Università Cattolica (2) i divari regionali crescono, ad esempio in Campania si registra la spesa sanitaria pro capite più bassa d’Italia e se è vero che le carenze organizzative sono numerose è anche vero che comunque ci sono minori risorse a disposizione.

A ciò dovrebbe mettere riparo lo Stato per un’equa distribuzione dei fondi basata su parametri appropriati e attendibili, non lasciataa localismi rissosi e affaristici. Non mancano le progressive riduzioni di personale sanitario, sostituendo solo in parte, per esigenze di bilancio, quello andato in pensione, ciò sta producendo vistose carenze di organico e allarmanti vuoti per alcune specialità mediche. Anziché affrontare il problema del personale e del calo delle nascite ci si è affrettati a chiudere o ridurre i reparti di maternità (3) ed a mantenere limitato l’accesso a corsi e specializzazioni universitarie sanitarie, con il risultato di ulteriori carenze attese oramai nel giro di pochi anni (4). Tra gli altri effetti, questa situazione ha prodotto una crescente medicalizzazione delle nascite ed un ricorso al parto chirurgico che non ha equivalenti in altri Paesi dell’UE con popolazione, sistemi sanitari e risorse simili al nostro. Esattamente l’opposto di quanto si dichiarava nei piani di riduzioni delle strutture ospedaliere per “favorire” la medicina sul territorio. Con tendenze di questo tipo, parlare di “possibile crisi” è dunque un eufemismo per mascherare una crisi che, unita a quella economica, sta continuando ad impoverire il Paese e pone le premesse per ulteriori aggravamenti nei prossimi anni. 

A queste coordinate di fondo della situazione demografica italiana e degli squilibri territoriali si sovrappongono i flussi immigratori, meno consistenti di quanto si pensi ma significativi, e quelli emigratori, con i giovani spinti ad espatriare per trovare attività di lavoro più adeguate e meglio remunerate (depauperando quindi il Paese delle forze giovani). Questi fenomeni collidono con le aspettative di una ampia parte della popolazione e da vari anni la LIDU cerca di confrontarsi con tali fenomeni demografici, spesso ignorati o minimizzati, che incidono sempre di più sulla vita quotidiana dei cittadini e su alcuni dei diritti fondamentali che sono costituzionalmente garantiti, quali il diritto alla salute, alla formazione di una famiglia, alla procreazione, ad una vecchiaia decorosa. L’instabilità economica, che sempre più ha caratterizza il mercato del lavoro, assumendo le vesti della cosiddetta “flessibilità” (di fatto precarietà), aggrava ulteriormente gli squilibri poiché i giovani (e le donne in particolare), già numericamente ridotti per l’invecchiamento demografico, incontrano maggiori difficoltà a trovare lavoro, ad avere retribuzioni adeguate per affrontare le spese familiari, ed a mantenerle nel tempo visto il prevalere di situazioni contrattuali a termine. Non solo, la contrazione dei servizi sanitari e la loro privatizzazione crescente riducono le azioni di prevenzione, di assistenza al parto e di tutela nel caso di nati con problemi.

Ci si trova quindi con relativamente poche coppie giovani, spesso sotto-occupate, con attività precarie o poco retribuite, prive di un sistema assistenziale pubblico completo, quindi fortemente disincentivate dal mettere al mondo dei figli. La contemporanea crescita numerica della popolazione anziana è stata abitualmente descritta solo in termini economici negativi, ma mantenere mediamente basseretribuzioni e pensioni sta riducendo i consumi di una ampia fascia di persone, una scelta poco vantaggiosa. Per definire i caratteri della profonda trasformazione in atto oramai da tempo, in un volume pubblicato anni or sono, avevo parlato di una “rivoluzione silenziosa” che sta trasformando demograficamente le società e gli scenari mondiali di medio e lungo periodo (5).

Per spiegare le cause del calo della natalità, una delle narrazioni collettive diffusa in Italia descrive le donne come oramai poco o nulla interessate alla procreazione, ciò però è smentito da varie ricerche realizzate nell’arco degli ultimi 10-20 anni: le ragazze e le giovani donne dai 30 ai 35 anni, in realtà i figli li vorrebbero, anche due o tre, ma in Italia è sempre maggiore la separazione tra il desiderio di maternità e la possibilità concreta di realizzarla. Tempi sempre più lunghi per ottenere un lavoro stabile (e rischio di non ottenerlo in caso di gravidanza), costi di nascita e crescita in aumento, spesso la scelta di avere un figlio unico risulta obbligata dal contesto, specialmente tra le coppie con livello medio-alto di istruzione che maggiormente si pongono il problema della stabilità economica e delle prospettive per i propri figli. Questa sorta di trappola demografica per cui da un lato le coppie giovani sono sempre meno numerose, poi subiscono gli effetti della precarizzazione del lavoro e dei costi elevati per gli alloggi e per la crescita degli eventuali figli, con la spinta pure ad evitare che la famiglia resti monoreddito, pone tutte le premesse per portare ad una rinuncia ai bambini.

Se si decide di avere dei bambini il rischio successivo è che la madre sia indotta a rinunciare al lavoro, con le usuali ampie differenze di servizi tra Nord e Sud Italia. A fronte di questi dati c’è chi ha continuato a definire “bamboccioni” o “choosy” una parte dei giovani italiani, facendo finta di ignorare che altri Paesi prevedono incentivi per il reperimento di alloggi ai giovani, borse di studio per garantire perfezionamenti e completamento degli studi, hanno una disoccupazione giovanile molto più bassa, garantiscono (nei fatti, non solo in principio) che una giovane donna in gravidanza non rischi di perdere il lavoro, offrono livelli retributivi medi più elevati per cui anche con un solo reddito si possono affrontare le esigenze di una nuova famiglia. In altri Paesi si ha maggior consapevolezza che i giovani sono oramai una parte minoritaria della popolazione che va incentivata a restare ed a migliorare. Non ultimo, i dati Istat del 2019 riportano un tasso complessivo di disoccupazione nazionale pari al 9,8%. Tenendo conto delle variazioni geografiche, si nota che al Nord la percentuale è del 5,7% e al Sud del 16,2%.

Problema aggiuntivo del Meridione è che la metà di quel 16,2% sono giovani, dai 15 ai 24 anni. Nel Sud Italia, le percentuali di disoccupazione giovanile superano il 50%, un dato triplo della media europea che è del 15,2%.  Emergono dunque preoccupanti tendenze demografiche che mostrano una crescente fragilità della struttura della popolazione italiana, difficoltà sociali ed economiche per le giovani coppie e per le donne che desiderino avere figli. A ciò si aggiungono divari territoriali crescenti che sono confermati da differenze nella durata media della vita, nella mortalità prematura, nella possibilità di trovare lavoro, nella disponibilità di servizi scolastici per i più piccoli. Ancora una volta aveva ben intuito Giovanni Falcone quando affermava: “Ci si dimentica che il successo delle mafie è dovuto al loro essere dei modelli vincenti per la gente. E che lo Stato non ce la farà fin quando non sarà diventato esso stesso un «modello vincente».” Ciò vale evidentemente anche per quei diritti fondamentali alla vita, alla salute, ad un lavoro stabile ed alla procreazione purtroppo spesso così approssimativamente e malamente tutelati.

1 In quasi tutti i Paesi dell’Europa occidentale i valori danno mortalità superiore a natalità o crescita zero. Gli immigrati hanno abitualmente un tasso di natalità superiore a quello delle popolazioni europee indigene.

2 Osservatorio Nazionale sulla Salute dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, “Rapporto osservasalute 2019”.

3 Ad esempio, come ricorda l’Ordine professionale delle ostetriche, oggi in Italia c’è la metà delle professioniste presenti nel Regno Unito (ved.: Bosco F., “Ostetriche: in Italia sempre meno in organico”, in Sanità Informazione, 28/01/2019)

4 Considerando il numero di infermieri e ostetriche ogni 10 mila abitanti, l’Italia si colloca solo al 17° posto tra i Paesi dell’Ue (es.: Rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità su La Midwifery Care: report internazionale e situazione italiana, in EpiCentro- ISS, Luglio 2011); tra non molto mancheranno i medici.

5 Virgili A, La rivoluzione silenziosa: le trasformazioni demografiche del XX secolo, CSI, Napoli, 2002