Libertà di Associazione Il 17 Ottobre 2020 l’agenzia ANSA pubblicava un articolo sulla libertà di associazione in particolare su legge n°18 del 12 ottobre 2018, della Regione Sicilia.

UE:COMMISSIONE PETIZIONI,CHIARIMENTI LEGGE ARS SU MASSONERIA.

Norma Regione Siciliana impone dichiarazione pubblica a iscritti

(ANSA) – CATANIA, 17 OTT – “Chiederemo alle autorità italiane le informazioni necessarie per valutare la compatibilità delle disposizioni della legge con il diritto dell’Ue, compresi quelli fondamentali riconosciuti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. E’ la conclusione della Commissione per le petizioni dell’Ue sulla richiesta di abrogazione della legge n.
    18 della Regione Siciliana, del 12 ottobre 2018, sull”Obbligo dichiarativo dei deputati dell’Assemblea regionale siciliana, componenti della giunta regionale e degli amministratori locali in tema di affiliazione a logge massoniche o similari’. La Commissione annuncia che “informerà il Parlamento europeo sulle sue conclusioni”. L’intervento è stato sollecitato da un cittadino italiano, A. M., assistito dall’avvocato Salvatore Ragusa del foro di Catania, sostenendo che “l’obbligo di presentare una dichiarazione sull’eventuale appartenenza ad associazioni massoniche sia in palese contrasto con la Costituzione italiana e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Il firmatario ha fatto riferimento alla violazione di “varie disposizioni, in materia di dignità, rispetto della vita privata, libertà di pensiero, di coscienza, di espressione, di riunione e associazione e di non discriminazione”. La Commissione ha ritenuto ricevibile la richiesta e rilevato che “in particolare, come per qualsiasi trattamento di dati personali, la finalità deve essere legittima” e “può essere lecito solo se rispetta i diritti e le libertà riconosciuti dalla Carta, compresa la non discriminazione, nonché la libertà di pensiero, di coscienza e di religione e la libertà di riunione e di associazione”. Per questo la Commissione “ritiene opportuno chiedere informazioni alle autorità italiane” sulla legge per “valutarne la compatibilità con le pertinenti disposizioni del diritto dell’Ue e il possibile effetto restrittivo sull’esercizio dei diritti fondamentali pertinenti”. (ANSA).  

QUESTA POVERA GIUSTIZIA

Giuseppe Cardillo

“Chiamateli allibberali, o frammassoni…Contr’a li giacubbini de la setta…Un processaccio, e, appena condannati…Doppo avelli accussì ghijottinati, Je darebbe una bona impiccatura”.

I versi del Belli rappresentavano così la stagnante giustizia papalina ancora mezzo secolo dopo il codice dell’illuminato Pietro Leopoldo di Toscana, quello che nel 1786 aveva “sbandita dalla Legislazione” la pena di morte, la lesa maestà e con queste i reati di opinione, fondando il sistema criminale sopra la celerità e l’umanità del giudizio per “la speranza di veder tornare alla Società un cittadino utile e corretto”.

Cittadino, Società, Speranza. Termini allora inauditi nelle leggi penali, ripresi due anni dopo in Francia dalla  Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino che li ha resi universali. Che precedettero il “Codice di procedura civile pei Tribunali del Granducato di Toscana” del 1832, che all’art. 94 giunse a stabilire che “Tutti i giudizj ordinari avanti qualunque Tribunale, e Magistrato di prima, seconda, e terza istanza avranno il termine perentorio di sei mesi correnti”.

Provate a leggere quei codici, o meglio facciamoli leggere in Parlamento, nel superfetare della nostra bulimia legislativa, del contentare le isterie del momento, della matassa normativa che ha reso tutto vietato e tutto permesso, con la conseguenza, ormai di rango costituzionale, che c’è una legge per ogni bisogna e questa si applica ai nemici e si interpreta per gli amici.

Diceva un contabile della politica che le leggi tuttora vigenti nel Bel Paese si contano in oltre un milione. Altrettanti i relativi procedimenti che realizzano la tirannia del diritto processuale su quello sostanziale, con l’inversione del brocardo con cui il giudice chiedeva all’avvocato “da mihi facto, dabo tibi ius”. E fu così che venne a circolare la speranza di una legge grottesca, recante l’articolo uno e unico: “Tutte le leggi, dal 1968, sono abolite”.

La crisi del sistema penalistico italiano è in particolare sotto gli occhi, anche di quelli del profano, intimidito dal groviglio normativo, alluvionale effetto dell’emotività della politica.

Numerosi precetti penali risultano invero emanati per contingenze, in ultimo per la corrente pandemia sanitaria ed economica, per esigenze ora restrittive e ora permissive della finanza, nella tutela dell’ambiente, in materia di stupefacenti, sulla libertà sessuale e così via. Altre norme sono per altro verso dirette ad assistere e supportare la pubblica amministrazione, oggi carente e domani crollata sotto la sua mole, senza che questo schizofrenico e ondivago legiferare tuteli nella coscienza di ciascuno precisi valori della persona e della collettività.

La questione delle pluralità delle norme penali e del loro indirizzo è dunque quella della stessa conoscibilità della legge e quindi della certezza del diritto per il cittadino.

Giovanni Falcone venne a Firenze nel 1988. Al Circolo fondato da Salvemini, tenuto poi dai Rosselli e da Calamandrei, ci diffidò dal guardare allo stesso nuovo Codice del rito penale italiano in materia emozionale, dal caricarlo di eccessive aspettative, quando stava assegnando all’accusa la fase delle indagini e al giudice quella della decisione in merito, senza separare lo stato e la carriera dell’accusatore da quella del giudicante.  Profeticamente, lo ritenne “in grado di funzionare se funzionerà tutto il meccanismo, a cominciare dalla mentalità di noi magistrati. In particolare intendo riferirmi alla netta differenziazione tra Pubblico Ministero e Giudice: il Pubblico Ministero deve prendere coscienza di essere parte e deve improntare la sua attività a questo nuovo ruolo assai diverso…”.

La cautela di Giovanni Falcone era ancora più giustificata verso il nuovo procedimento penale, che del resto lasciava  intatto quello dei reati e delle pene, del Codice Penale entrato in vigore il primo Luglio del 1931, con l’allora concomitante Codice di Procedura penale. Ambedue costituirono una singolarità nel panorama penalistico europeo.

L’Italia post unitaria si era infatti dotata dopo profondo dibattito del sistema penale varato da Crispi e Zanardelli nel 1889. L’ordinamento aveva raccolto le illuminate posizioni della codicistica preunitaria, e contemperandole nell’ottica laicistica del tempo aveva predisposto uno strumento che, come in altre parti d’Europa, avrebbe certo raggiunto il secolo di vita.

L’impianto del codice napoleonico è stato infatti aggiornato dalla Francia solo nel 1994. L’Austria ha adottato un nuovo Codice Penale nel 1974, sostituendo quello del 1852, mentre in Germania il codice guglielmino del 1871 scampò persino al nazismo rimanendo illeso sino al 1975.

Al governo Mussolini premette invece la stesura  di nuovi codici ispirati alla centralità dello Stato. Dettero al guardasigilli Rocco tempi ristretti, e pochi mesi per una   consultazione di pura facciata delle cattedre universitarie. Quella che aveva richiesto anni al ministro Zanardelli.

La fretta del ministro fascista forzò anche lo stesso sistema statutario, quando il Regio Decreto di approvazione del codice Rocco travolse la legge  2260 del 1925, che aveva delegato il Governo a “modificare” ovvero “emendare” quelle norme del codice Zanardelli  “che danno luogo a questioni” e quelle “formalmente imperfette”.

Al contrario il R.D. 1398/1930  promulgò un corpus normativo stravolgente, dove la tutela dello Stato e dell’ordine sociale venne sovrapposta a quella del cittadino e all’emenda propugnata dal Granduca di Toscana in anticipo alla Rivoluzione Francese. Sarà stata una coincidenza venuta dalla fretta, o fu solo un caso che la legge promulgativa dei codici Rocco non ebbe la firma di Vittorio Emanuele, in quell’anno ancora non immemore dei traguardi di civiltà raggiunti dall’Italia dei Savoia al tempo di Umberto I.

Il dopoguerra e il ritorno alla sovranità parlamentare riproposero il tema della centralità del cittadino, soggetto centrale e titolare della protezione della legge criminale, e della struttura e finalità delle pene.

Doveva quindi essere realizzato il principio costituzionale che la pena è riscatto ancor più che l’emenda del reato ovvero solo una remora. Ma il lungo tempo trascorso e la complessità e il numero dei tentativi parlamentari e di governo verso un nuovo Codice Penale potrebbero occupare da soli un capitolo della storia del diritto italiano. Al tentativo dell’Agosto 1944 del ministro Tupini “per la formazione di un nuovo codice penale…aderente alle tradizioni giuridiche del popolo italiano” e sostanzialmente mirato al ripristino dei principi del codice Zanardelli sono seguite iniziative firmate da giuristi di fama nella scienza penale in Italia e nei paesi  ad ordinamento similare, come quelli dell’America latina. Si giunse al progetto di un nuovo codice penale del Lattanzi, a quelli di Aldo Moro del 1956, di Guido Gonella del 1960, di Oronzo Reale del 1968, e a quello di Giovanni Leone nella VI legislatura, che fece introdurre quantomeno la clemenza del cumulo attenuato delle pene e la comparazione delle circostanze aggravanti e attenuanti  introdotte dalla legge 220/1974, negli anni dell’emergenza economica e del limitato intervento sul sistema penitenziario, con le sanzioni penali sulle violazioni amministrative. E solo nel 1987 il ministro Giuliano Vassalli provò a dare una nuova spallata all’ormai consueto criterio delle leggine portatrici di sanzioni penali di supporto all’elefante della burocrazia italiana.

L’intero apparato penalistico andava riscritto, si disse nuovamente in quegli anni, e giunse dunque la commissione presieduta da Antonio Pagliaro, composta con Franco Bricola, Ferrando Mantovani, Tullio Padovani e Antonio Fiorella. Il seguito dell’iniziativa è passato al catalogo dei fallimenti: rasseganti i propri risultati al Ministro per il seguito delle consultazioni delle Università, la Commissione cadde con la Prima Repubblica, e con essa l’ennesimo tentativo di superamento del Codice Rocco.

Né migliore fortuna toccò nel 1994 alla Commissione Giustizia del Senato, quando costituì un nuovo Comitato per la riforma del Codice Penale. Questo rassegnò il lavoro con l’articolato  del Disegno di Legge presentato dal Governo del fiorentino Lamberto Dini, naufragato con la fine anticipata della XII Legislatura.

Nel contempo e nel seguito ultraventennale il Governo e il Parlamento hanno imperversato con decreti, leggi che sovrappongono quelle dell’Unione europea e le leggine che contentano le estemporanee emotività, le mode e in primis della pubblica amministrazione che maschera le sue inefficienze.

La sfiducia e il fatalismo della nostra democrazia e della nostra cultura giuridica nelle vicende riformatrici del codice Rocco hanno codificato, al contrario, il sistema delle leggi parziali e modificatrici di quelle già modificate, istitutive di nuove e sempre più complesse figure di reato, talché il nostro sistema penale è oggi quel bosco ignoto al cittadino tenuto per primo ad conoscerlo.

Il contratto sociale viene dunque  strappato nell’impenetrabile foresta della Gazzetta Ufficiale. Un eden per gli addetti ai lavori, a molti dei quali sfugge il principio della pari condizione dei cittadini nell’ordinamento sociale.

Né deve sfuggire il rapporto tra la complessità delle norme e quelle nicchie dove il potere della burocrazia si rafforza a dispetto delle dichiarazioni di principio, e dove quindi muore la fiducia del cittadino verso lo Stato.

Nel particolare sistema delle leggi penali, chi può negare la necessità di un Codice che finalmente disboschi il sistema penalistico di questo Paese a quasi un secolo da quello fascista? O l’esigenza di una giustizia diversa da quella dea bendata, sperduta nel groviglio sovrapposto al vetusto codice di un ordinamento totalitario nelle emergenze di novant’anni?

Decenni di iniziative della dottrina, del governo e parlamentari verso un corpo di leggi penali, di un solo codice fondato sulla centralità della tutela della persona, dei suoi pubblici e privati diritti, anziché su quello dello Stato, rendono infatti inutile la domanda se si debba continuare con le depenalizzazioni a casaccio e gli inasprimenti del giorno dopo, nell’ormai forsennato legiferare che dopo aver disorientato il cittadino lo ha portato al fatalismo dell’ignoranza verso un Codice penale ormai gonfio di quasi mille articoli e accerchiato dalle centinaia di leggi che hanno seppellito la nostra giustizia.

E qui torna il Belli, che nel 1836, all’abate confessore dei condannati a morte che portava il profetico nome Bonafede, rispose che le leggi soffocanti danno almeno la speranza  nella semplicità delle regole ultraterrene: quando il poveraccio “more per le mano der governo, è quasi certo  com’adesso è inverno, che trova er paradiso spalancato”.

Diritti Umani/ Osservatorio Ambiente Il 20 AGOSTO SCORSO ABBIAMO SUPERATO IL PUNTO DI NON RITORNO DEL CLIMA.

A cura di Dania Scarfalloto Girard

Cosa vuol dire? Ma soprattutto quanto tempo abbiamo?

Il punto di non ritorno è il momento o condizione a partire dal quale non si riesce più a tornare alla stato iniziale.

“In generale il punto di non ritorno è il punto più critico di una crisi che se travalica detto punto si produce, solitamente una trasformazione sostanziale o l’annientamento completo di ciò che l’ha preceduta.”

Quello che è certo è che i cambiamenti climatici in atto da un secolo a questa parte, di cui l’uomo è diretto responsabile, devono essere al più presto fermati, per evitare conseguenze assai più gravi.

La realtà dei fatti è che si può parlare di un’emergenza planetaria, che coinvolge tutti gli abitanti del nostro pianeta.

Studi recenti dicono che la concentrazione di gas serra nel mondo non è mai stata così alta.

Le conseguenze sono più gravi di quello che avevamo immaginato. E le manifestazioni del fenomeno sono peggiori anche delle previsioni scientifiche più gravi. Lo vediamo dappertutto. Dai disastri naturali all’oceano Artico, dai ghiacciai alla temperatura del mare.

La realtà è che i cambiamenti climatici stanno procedendo più velocemente rispetto alle nostre azioni.

Parlano tutti con un senso di urgenza ma servirà a qualcosa?

Per combattere i cambiamenti climatici bisogna abbattere le emissioni e bisogna farlo nel più breve tempo possibile.

Inutile credere che abbiamo ancora tempo, non è così il tempo è scaduto.

Eugenio Turri geografo e scrittore, sostiene “ sia venuto meno, il confronto diretto tra uomo e natura, ed in particolare che sia venuto meno quel momento magico in cui l’uomo, individualmente trovava rispecchiato nella natura il segno di sé, della propria azione, del proprio modo di creare un ordine che gli derivavano dalla società in cui viveva”.

Perchè la natura e il paesaggio che ci ci circonda, specialmente quello rimasto al naturale e quello antropizzato è, e lo sarà sempre, un bene di tutti , un bene comune .

“la trasformazione climatica e ambientale in atto e che riguarda tutti e tutto, dai poli all’equatore, dai ghiacciai alpini ai fondali oceanici, dall’America all’Indonesia, dall’India alla Cina. L’attività antropica ha minato ogni ambiente, ogni ecosistema, ogni equilibrio, ha compromesso la biodiversità e la sopravvivenza di migliaia di specie, compresa la specie umana.”scrive Maria Grazia G. Paperi.

Il fatto è che il problema di dimezzare la quantità di CO2immessa in atmosfera in un paio di anni è un obiettivo ormai irrealizzabile. E’ stato rilevato da un0 studio recente che, nonostante gli impegni assunti nelle recenti conferenze sul clima, la quantità di emissioni di CO2è tornata ad aumentare negli ultimi anni dopo che si era stabilizzata per qualche anno.

I poli sono già in stato avanzato di “decomposizione”, di questo passo entro il 2040 sarà possibile la navigazione all’interno del Polo Nord, se lo scioglimento avvenisse completamente la scomparsa dell’Artico, che funge da condizionatore d’aria per l’emisfero settentrionale, determinerebbe il cambiamento delle correnti e dei cicli climatici con conseguenti inondazioni e siccità dagli sviluppi imprevedibili e catastrofici. Ampie porzioni di coste, fra le zone più abitate del Pianeta, isole e penisole sarebbero completamente sommerse, come sta già avvenendo.

Tutto questo non fa ben sperare, c’è una grande differenza tra il dire e il fare.

Il mondo ha bisogno urgentemente di un cambio di marcia, no di continui passi indietro: per combattere i cambiamenti climatici bisogna abbattere le emissioni e bisogna farlo nel più breve tempo possibile.

Dobbamo riuscire ad aggregare tutti coloro che hanno un obiettivo comune: la Sopravvivenza.

Tanto per dirne una,in Italia le nostre città sono tra le più inquinate d’Europa a causa della forte presenza, oltre i limiti di legge, di un gas fortemente irritante e cancerogeno, emesso nei processi di combustione, in particolare dai motori diesel: il Biossido d’azoto (NO2). il 2015 è stato l’anno dello scandali , è stato reso noto al mondo intero come i produttori di auto ci abbiano preso per il naso per decenni) e ancora adesso siamo in emergenza inquinamento anche se viene in parte nascosto o sdrammatizzato. Nemmeno in una metropoli come New York abbiamo i nostri livelli. Le nostre sono aree metropolitane fortemente a rischio per la salute dei suoi abitanti. Il rischio sanitario aumenta notevolmente durante la stagione calda, quando si assiste a un brusco aumento dei ricoveri per colpa dell’incremento dell’NO2 , la formazione dell’Ozono (O3), anch’esso fortemente irritante e tossico. Polveri sottili, benzene,zolfo e altro.

Viviamo senza rendercene conto, ma non si può prescindere dall’ambiente.

L’uomo, la comunità vive parzialmente nell’ambiente naturale, ma in ambiente antropizzato e costruito , nella città. Ma se questo bene che è il nostro ambiente, viene messo a rischio costantemente, allora dobbiamo intervenire.

Non è sufficiente quello che facciamo.

Le comunità hanno bisogno di vivere bene, in un ambiente sano. Il benessere mentale deve andare di pari passo con quello fisico. Progettare città vivibili e sanare quelle esistenti è una priorità, ed è importante che sia fatta una scelta radicale e profonda.

La fiducia che la comunità ha verso le istituzioni sta vacillando perché non si vedono passi concreti.

In questa fase storica, tenendo conto anche della pandemia dovuta al virus Covid 19, che ha origine anch’esso dallo stravolgimento dei nostri ecosistemi, quello che occorre è chiederci una volta per tutte se il diritto alla vita venga prima o dopo tutti gli interessi di politici ed economici indifferenti a tutto ciò che inquina, e tutti i veleni che respiriamo,e tutto il cibo spazzatura che mangiamo, e tutte le malattie che prendiamo da molto tempo a questa parte se vogliamo continuare a tutelare il privilegio di pochi a danno della salute di tutti, prego accomodatevi e state a guardare, abbiamo bisogno che tutti ci svegliamo una volta per tutte, e prendiamo coscienza di questa cruda realtà.

Per Ilaria Capua, le epidemie come il coronavirus derivano dalle azioni dell’uomo sull’ambiente

Secondo la virologa di fama internazionale, occorre un approccio nuovo al concetto di salute e malattia, basato sul rapporto (più rispettoso) nei confronti dell’ambiente e sullo studio approfondito dei dati

«Questa epidemia ha messo in luce come – cosa che sapevamo già – in questo mondo siamo tutti interconnessi» dice la virologa di fama mondiale Ilaria Capua.

“Ci si basa su un concetto base: se intervieni su un ecosistema e, nel caso, lo danneggi, questo troverà un nuovo equilibrio. Che spesso può avere conseguenze patologiche sugli esseri umani. Lo si vede con le conseguenze, non volute, dell’impiego su larga scala dei pesticidi, che sono andati a danneggiare la popolazione di api e farfalle. Queste ricadute sull’ambiente raggiungono alla fine, la nostra salute. Perché – e questo è il secondo concetto fondamentale che dovrà diventare chiaro a tutti gli stakeholder del settore– noi viviamo in un ambiente chiuso. Come se fossimo un acquario. La nostra salute dipende per il 20% dalla predisposizione genetica e all’80% dai fattori ambientali. La cura deve studiare, oltre all’organismo in questione, anche il contesto. “

Una cosa è certa: se vogliamo aspettare un benché minimo cambiamento, occorrerà sensibilizzare i cittadini e le istituzioni e fare in modo che tutti coloro che hanno a cuore la propria esistenza e la propria salute inizino a occuparsene concretamente. Si tratterà di provare a sopravvivere e capire e rendersi conto della drammatica situazione in cui siamo immersi, dobbiamo intervenire e insistere con chi di dovere per attuare provvedimenti indirizzati a migliorare la qualità dell’ambiente.. Dovremmo iniziare a chiedere e a impegnarci direttamente affinché si possa tratare bene il nostro ambiente e che le automobili private, autobus, che inquinano, vengano espulse fuori dalle nostre città sostituite da sistemi di trasporto pubblico e mezzi privati a impatto zero e più biciclette.

Lo riteniamo un diritto della nostra comunità dove noi ,i nostri bambini e i nostri anziani possano vivere la città senza camminare in un ambiente avvelenato. Effetti dello smog e di un ambiente insalubre.

Per non parlare dei problemi di dissesto idrogeologico frane nubifragi ( vedi i parchi e aree distrutte con diversi morti e feriti. ) Genova, Firenze, Livorno.

Disastri ambientali sia sulla terra ferma che in mare Ilva di Taranto. Rosignano Solvay. Le terre dei fuochi. Orbetello Lago di Masacciuccoli ,Pisa Seveso.

Incendi che distruggono un enorme patrimonio boschivo con tutti gli animali che muoiono o non sopravvivono in un habitat che è cambiato.

Speculazioni edilizie ai danni dell’ambiente Anche il paesaggio è un bene comune ed è un diritto per tutti, sancito anche dalla Costituzione, art.9. E’ chiara la funzione esistenziale del paesaggio, esso è insieme natura e storia, frutto dell’incontro tra uomo e territorio. Il paesaggio allora non può essere pensato senza tener conto della dimensione soggettiva e sentimentale: senza questa non potrebbe esistere. Ogni paesaggio reca con sé le tracce del passato degli individui, le loro radici, la loro identità; osservarlo permette di comprendere l’evoluzione storica del rapporto tra uomo e natura. Ma oggi sono proprio i paesaggi rurali, in molte campagne e borghi del nostro paese, a segnalare pratiche produttive e insediative disastrose che hanno compromesso ormai quei territori, che ci appaiono talvolta incoerenti e sembrano faticare a costruire nuovi equilibri, anzi non li ricreeranno mai più. Anche le generazioni future hanno il diritto di veder salvaguardato e tutelato il Patrimonio artistico e paesaggistico. Ripercussioni sul territorio Devastazioni Cementificazioni Incuria Rischio idrogeologico Deturpazione dei luoghi.

Tutto questo non significa soltanto l’effetto, di per sè tragico, di un surriscaldamento globale irreversibile, significherebbe anche che, come avverte Peter Wadhams, ex direttore dello Scott Polar Research Institute di Cambridge: “Prima o poi, ci sarà un abisso incolmabile tra le esigenze alimentari globali e la nostra capacità di produrre cibo in un clima instabile.” Stabilità e ciclicità climatica sono presupposti essenziali per l’agricoltura, ad ogni tipo di coltivazione, ovunque. Saremo sempre di più e avremo sempre meno da mangiare, con tutto ciò che consegue in termini di guerre, migrazioni, odio. Come avverte l’Organizzazione Mondiale Meteorologica: “L’ultima volta che l’anidride carbonica aveva raggiunto i valori attuali è stato circa 5 milioni di anni fa. Siamo sempre più pericolosamente vicini a quello che gli scienziati ritengono il punto di non ritorno (ossia le 450 ppm), superato il quale sarebbe impossibile mantenere l’aumento della temperatura globale entro i 2 gradi centigradi”.

Per un cambiamento strutturale serve l’intervento politico. Perché se da un lato alcuni cittadini si vergognano della propria impronta ecologica, dall’altro le aziende inquinanti tengono consapevolmente in piedi un sistema distruttivo. Non serve instillare nella gente il senso di colpevolezza riguardo all’ambiente, vogliono che la colpa cada sugli individui, sui consumatori, i colpevoli sono le società che inquinano. Certo il nostro comportamento è importante, ma ai fini di un cambiamento le “società” devono fare la loro parte. Jaap Tielbeke giornalista e ambientalista scrive :Fare docce più brevi non aiuta molto l’ambiente: si risparmiano appena novanta chili di anidride carbonica all’anno. Ma un volo da Amsterdam a New York produce 1.700 chili di anidride carbonica in un colpo solo. Volare di meno, quindi, fa davvero la differenza. E anche mangiare meno carne, perché gli allevamenti emettono più gas serra di tutto il settore dei trasporti. Passare a una dieta vegetariana è uno dei contributi più efficaci che un individuo possa dare alla lotta al cambiamento climatico. “

Per un cambiamento abbiamo bisogno di un impegno collettivo.

Fonti:

Linkiesta

Internazionale

Il Digitale