PER UNA NUOVA DEFINIZIONE DI TOLLERANZA

“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza” 10 dicembre 1948, Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, articolo primo.

Non siamo tutti uguali e neppure abbiamo tutti le stesse idee: è un dato di fatto. Quello che invece non è scontato è che la diversità generi a priori una gerarchia di dignità, fattuale od intellettuale, tra chi si distingue per genere, razza, religione, idee o qualsiasi altra cosa.

Mi ricordo di aver letto, in un libro di Bertrand Russell, un concetto che suona più o meno come segue. “Vi sono tre grandi religioni monoteistiche, ciascuna delle quali racconta una propria immagine della Divinità e propugna la morale che ne discende in modo diverso. Tutte sostengono di essere certe della propria Verità perché le è stata rivelata direttamente da Dio stesso: come minimo (e in quel come minimo vi è tutto lo humor inglese del grande filosofo) due su tre non sono attendibili”. Proseguendo il pensiero tracciato da Bertrand Russell, basterebbe riflettere sulla casualità della nostra formazione intellettuale che dipende dal periodo storico, l’area geografica, la famiglia in cui per destino siamo nati e che perfino il corso di studi o la professione possono influenzare il nostro modo di pensare per giungere alla conclusione che altri punti di vista, diversi dal nostro, devono essere da noi valutati ugualmente degni di considerazione.

Ciascuno di noi riceve un’educazione imperfetta, parziale, che dipende dalla sua condizione e lo spinge a guardare il resto del mondo come dall’interno di una regola, pronto soltanto a giudicare quelli che, dal suo punto divista, appaiono gli errori degli altri. Si nasce senza distinzioni, ma passiamo attraverso l’educazione del proprio stato, religione, famiglia e ciò che da essi riceviamo è solo una piccola parte di qualcosa di più grande, generale, che attiene all’uomo in quanto tale, appartenente al genere umano: l’Uomo con la “U” maiuscola, appunto. Non possiamo certo rinnegare l’educazione ricevuta, ma dobbiamo comprendere come essa sia imperfetta, parziale, unilaterale e che ci spetta il compito di annegarla, quale limitata componente, in una più ampia, desiderabile, universale, per tornare ad essere Uomini, secondo la nostra natura. Per questo la diversità ci è indispensabile: solo il confronto, purché pacato e sereno, di situazioni ed idee diverse potrà permettere il progresso delle idee stesse e ci consentirà di proseguire nella comprensione di questa nostra auspicata universalità culturale.

La Storia ci dimostra quanto questo sia sempre stato difficile: schiavitù, guerre di religione, prevaricazioni di ogni tipo ci accompagnano in ogni epoca. La nostra speranza risiede nella constatazione che l’umanità, da sempre, si è dimostrata capace tanto di produrre tutto il male possibile quanto poi di porvi rimedio: tanto più l’appropriazione e la manipolazione della verità assoluta genera l’intolleranza, tanto più dobbiamo confidare che la natura umana e l’attaccamento degli uomini alla libertà inducano a neutralizzarla. Cos’è quindi questa tolleranza che gli uomini di buona volontà desiderano e di cui, in generale, sentono ancora la mancanza? Quanto dovremo aspettare? Nella mia percezione, è successo che, all’alba del terzo millennio, venga segnato un

drammatico passo indietro laddove potevamo, e dal secolo dei lumi in poi ce n’erano le premesse, sperare invece in un significativo progresso. Certamente nella società d’oggi la “tolleranza” costituisce un concetto ambiguo, quantomeno dubbio.

Recita uno dei vocabolari della lingua italiana più diffusi: “tolleranza”, sinonimo di sopportazione, capacità di tollerare, con pazienza e senza lamentarsene, ciò che è o potrebbe rivelarsi spiacevole, disposizione d’animo per la quale si accettano e si rispettano idee, opinioni, religioni diverse dalle proprie. Questa definizione un po’ mi rincuora: non molti anni fa, nello stesso vocabolario, idee ed opinioni non sarebbero state citate e avremmo trovato che il termine “tolleranza”, in realtà, nella nostra lingua, è nato con il mero significato di concessione di libertà di culto anche a religioni diverse da quella ufficiale. Essa trova il suo uso più noto nei così detti editti di tolleranza, quello di Costantino e Licinio, nel 313, che pose fine alle persecuzioni dei Cristiani, quello di Caterina de’ Medici che nel 1562, nella cattolicissima Francia, consentì agli Ugonotti il libero esercizio del loro culto, cercando di evitare una guerra civile, o infine quello del 1782 promulgato da Giuseppe II d’Austria con cui si estendeva la libertà religiosa alle popolazioni viventi nei territori asburgici ma professanti confessioni non cattoliche, cioè luterani, calvinisti, ortodossi, ebrei e massoni. Concessioni politiche che comunque superano quelle della Chiesa che, dal suo punto di vista religioso, ancora oggi concepisce la tolleranza solo come limitata indulgenza nei riguardi dell’opinione dei propri fedeli discordanti su questioni secondarie, non considerate dogmi o dottrine essenziali.

Non è una sorpresa, in questo campo, che la società civile, laica, si sia mossa più rapidamente della Chiesa, o meglio, di quelle religioni che, poiché si definiscono “rivelate”, non possono ancora deflettere dalle posizioni di chi si ritiene depositario di una verità assoluta, non discutibile, neppure parzialmente. D’altra parte, nella storia dell’uomo, il concetto di tolleranza non precede sicuramente l’età dell’assolutismo religioso, e sembra avere legami organici, in senso negativo, con esso e, per esso, con il monoteismo: i Romani infatti, finché in epoca pagana, si sono rivelati insofferenti solo quando venivano toccati gli interessi economici della Res Publica, dimostrando invece larghezza di vedute, se non curiosità e desiderio di condivisione, in materia di religione, filosofia, cultura in genere di tutti i tipi. Poi, con il cristianesimo paolino, nell’occidente si diffuse il conformismo culturale, che culminò nel Medio Evo con la feroce repressione da parte della Santa Inquisizione di ogni esercizio di discernimento.

Come detto, il concetto si è poi evoluto, anche se soltanto dal punto di vista civile: in molti stati vi è oggi il rispetto della libertà altrui, non soltanto in materia religiosa, ma anche delle opinioni sia d’ordine filosofico che politico. Dopo un lungo appannamento della ragione, finalmente Voltaire così poteva definire la tolleranza nel suo dizionario filosofico: “la tolleranza è appannaggio dell’Umanità; siamo tutti intrisi di debolezza e d’errore; perdonarci reciprocamente le nostre sciocchezze è la prima legge di natura” potendo dedicarle un successivo celeberrimo trattato. Pochi anni più tardi Mirabeau dichiarava: “io non sono venuto a predicare la tolleranza; ai miei occhi la libertà di culto illimitata è un diritto talmente sacro che il termine tolleranza, che vorrebbe esprimerla, mi sembrerebbe in qualche modo anch’esso tirannico, perché l’autorità che tollera potrebbe anche non farlo”.

Ecco perché il termine “tolleranza” suscita in me una spontanea, radicata diffidenza: la semantica, ai miei occhi, lo limita e, pur non avendo un’alternativa migliore, le impedisce di raggiungere quell’altezza di valori umani che ai nostri giorni, come ho detto, sarebbero ormai evocabili. Non posso dimenticare che il termine, in origine, sancisce un rapporto di forza ed implica una distinzione netta fra coloro che tollerano e coloro che beneficiano della tolleranza, come se fosse una concessione e non un diritto. Con Mirabeau, umilmente di fronte a tanto nome e ben oltre due secoli più tardi, vorrei anch’io dire: un riconoscimento dell’altro che sia pieno e tragga la sua forza

dalla legge naturale non dovrebbe avere la necessità di essere espresso, tantomeno con quel vocabolo. Forse ci sarebbe bisogno di una parola nuova, esprimente un concetto talmente intriso di libertà da non esservi né concessione né condiscendenza, ma il semplice riconoscimento di sé e degli altri senza cancellare quelle differenze che, abbiamo detto, costituiscono una continua fonte d’arricchimento.

Rifacendomi agli inizi di questo breve scritto, mi sento di sottolineare ancora che la tolleranza vera, per noi, oggi, indipendentemente da ogni etimologia od accezione precedente, religiosa o profana, consiste nella consapevolezza che la diversità nel pensiero, nei sentimenti, nei propositi sia una reciproca ricchezza, sia pertanto meritevole gioia ed accoglienza e non di sopportazione. Tolleranza è pertanto il pieno riconoscimento della pari dignità a chiunque esprima una cultura, un culto o un’idea diversa, perché quella diversità sarà comunque per tutti una occasione di confronto e consente di aggiungere un piccolo mattone alla costruzione di una società più giusta, più consapevole, con minore sofferenza per tutti.

E se questa idea della tolleranza, purtroppo, ancora oggi può essere considerata solo una visione profetica di pochi, in attesa di un mondo che verrà e non certo un diffuso stato di fatto, mi sono a lungo chiesto dove trovare una parola che la esprima compiutamente! Ed oggi ricevo un aiuto inaspettato, sfogliando una rivista di cultura varia, rimasta a lungo, non letta, su uno scaffale della mia libreria. Scopro infatti il termine arabo, tasamuh: esso implica concetti come permesso, autorizzazione, perdono, tolleranza ed indulgenza. Ma c’è di più, molto di più. E’ la forma nominale di un verbo della sesta coniugazione: mi dicono che gli arabi, oltre ai verbi transitivi ed intransitivi e, per i primi, l’attivo e il passivo, hanno anche quella sesta coniugazione per esprimere la reciprocità. Tasamuh è perciò un riconoscimento reciproco delle proprie differenze, accordato contemporaneamente da una parte e dall’altra, senza gerarchie.

Mi ricorda che questa lingua è nata, e quella civiltà è fiorita, in un’epoca in cui noi europei eravamo sicuramente i barbari. Quella civiltà ha potuto insediarsi, fiorire e creare città come Medina, Damasco, Baghdad, Kairouan, Cordova, Siviglia, Samarcanda, Isfahan, Shiraz, Istanbul, il Cairo e molte altre metropoli a est e a ovest, traendo la sua grandezza non dal potenziale di un solo popolo, ma anche da ciò che di diverso quel popolo incontrava strada facendo, che fosse greco, cristiano, persiano, indù, cinese, africano o berbero e così via. Il pensiero arabo fu impregnato da ciò che di diverso incontrò, attraversando deserti e mari o nei circoli che a Baghdad radunavano sapienti musulmani, cristiani, siriaci ed ebrei per tradurre i tesori della civiltà dell’uno e degli altri, al fine di unirne i semi. Il profeta Maometto raccomandava ai musulmani di andare in Cina per arricchirsi del suo sapere. Il dialogo è poi proseguito a est e a ovest: in Andalusia, patria di Avorroè, musulmano, e di Maimonide, ebreo, e di molti altri sapienti cristiani, che avevano saputo introdurre i lumi della scienza in terra di Islam. Riaprendo le porte dell’Europa al pensiero di Aristotele, la civiltà araba islamica, rappresentò l’incontro con l’altro che preparò l’Europa del Medioevo a ricevere il nutrimento che avrebbe alimentato il Rinascimento. Ecco perché, a dispetto dei fondamentalismi di alcuni arabi di oggi, in tasamuh vi è, nel confronto, il riconoscimento dell’altro senza orgoglio né complessi; non tollerato, bensì considerato ad un livello d’uguaglianza e in piena libertà.

La lingua in cui vi scrivo avrebbe bisogno di un termine così e forse ci è di lezione (sicuramente lo è per me), o forse è un segno del destino e fonte d’ispirazione, che l’esempio ci venga da un altro popolo, che pure si affaccia sul Mediterraneo, affinché non pecchiamo di presunzione pensandoci noi soli capaci di tolleranza, affinché sappiamo riconoscere la ricchezza di culture diverse e non cadiamo nell’errore di essere orgogliosamente disposti a concedere una qualunque tolleranza, ma essere invece sempre umilmente desiderosi di riceverla.

Un termine così, ancora da inventare nella lingua in cui vi scrivo, mi educherebbe al solo pronunciarlo.

Alessandro Pini (*)

Ispirato da uno scritto di Mohamed Hassine Fantar, tunisino, titolare della cattedra Ben Ali per il dialogo delle